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DIDATTICA INTEGRALMENTE DIGITALE, QUALI INSIDIE? GUI:”PROBLEMA PER MANTENIMENTO CONCENTRAZIONE” Eleonora fortunato (OrizzonteScuola.it) Se troppo esposti alla navigazione in Internet, i ragazzi in età scolare rischiano di perdere l’attitudine alla concentrazione? Ne abbiamo parlato col sociologo dell’università Milano-Bicocca Marco Gui, autore del libro "A dieta di media" Nel suo ultimo libro, A dieta di media (Il Mulino 2014), lei parla in maniera molto diffusa della difficoltà di concentrazione in un regime di abbondanza comunicativa e di stimoli multitasking forniti dalla Rete. Perché i nuovi media rendono più facile la distrazione? I media digitali, così come vengono disegnati e impostati oggi, sono costitutivamente problematici per le attività che richiedono il mantenimento della concentrazione. Non solo infatti sono multifunzionali ma consentono di impegnarsi contemporaneamente su più processi. L’interfaccia a finestra è il modo in cui questa multifunzionalità è stata finora maggiormente declinata: si lavora su una finestra ma le altre sono minimizzate in una barra a fondo schermo e possono essere sempre rifocalizzate con un click. Molte funzioni riguardano la comunicazione in Rete e quindi possono interrompere direttamente il lavoro (un’email, una telefonata, una chiamata skype, un sms, una notifica su Facebook) illuminandosi o lampeggiando per richiamare la nostra attenzione. La tendenza spontanea a passare rapidamente da una finestra all'altra rischia di disabituarci a restare concentrati su un singolo compito per lungo tempo. Una ricerca che cito nel mio libro mostra, dati di navigazione alla mano, che gli articoli su Internet vengono letti dalla maggioranza degli utenti solo nella loro parte iniziale. A questo si aggiunga la molteplicità dei dispositivi in funzione per lo stesso individuo (molte ore passate per esempio con il computer e lo smartphone entrambi online) e la loro portabilità, con la conseguenza che la condizione di sovrabbondanza di stimoli è quasi costante per molte persone. Io definisco questa condizione “sovrabbondanza comunicativa permanente”. In questo io vedo delle opportunità, se la condizione di stimolazione continua viene limitata temporalmente e gestita in modo consapevole. Vedo invece dei rischi significativi se questa diventa la condizione di default delle nostre giornate.

 

I più a rischio sono certamente i giovani, che sono particolarmente impegnati in attività che richiedono concentrazione, e si stanno formando alla fatica della concentrazione stessa. I giovani, come dimostrano le ricerche sui comportamenti di consumo sono anche più inclini al consumo d’impulso e quindi più facilmente distratti da contenuti attraenti. La distrazione di cui parla è paragonabile a quella di uno studente che venti anni faceva i compiti ascoltando la musica o guardando la televisione o è qualcosa di diverso? Credo che la differenza stia nella disponibilità immediata e sovrabbondante di occasioni piacevoli e facili di consumo comunicativo e nella diversa struttura dei nuovi media, che rende tale abbondanza facilmente fruibile in modo frammentato. In un simile contesto lo sforzo di autocontrollo necessario ad arginare la spinta al consumo d’impulso è molto maggiore. Occorre oggi una esplicita “educazione all’attenzione” che prima della rivoluzione digitale era meno necessaria, perché la divisione temporale e spaziale dei contesti e delle funzioni aiutava a focalizzarsi sulle attività importanti, sia per ciò che riguardava lo studio, le attività intellettuali e il lavoro in genere che per quanto atteneva ai rapporti personali e familiari. In un certo senso, per esempio, uno era obbligato ad essere “presente” durante la cena in famiglia o durante un viaggio in macchina con i propri familiari . Oggi, invece, queste due situazioni sono quelle nelle quali i genitori più spesso soffrono della “assenza” dei figli, perché impegnati in conversazioni o fruizioni varie (o entrambe) attraverso lo smartphone. La nuova situazione non va demonizzata, ma occorre prenderne consapevolezza per gestirla e non esserne vittime. Al limite, essa potrebbe anche essere un’occasione per riflettere più esplicitamente sul valore della nostra attenzione. Un collega mi racconta che in alcune università americane ha preso piede l’usanza di appoggiare tutti gli smartphone al centro del tavolo quando ci si incontra con un gruppo di amici, obbligando chi lo prende a pagare un giro di drink per tutti. E’ un modo semplice di affrontare un problema che sta emergendo sempre più chiaramente. Credo che trovare modalità per sviluppare questa competenza di gestione dell’attenzione sia una delle sfide per gli educatori di oggi. Infatti senza questa capacità, si rischia che l’abbondanza comunicativa che abbiamo guadagnato ci faccia più male che bene. Mi sembra essere d’accordo con Roberto Casati quando mette in evidenza i limiti di quello che comunemente sentiamo chiamare ‘multitasking’: citando il filosofo, lei scrive che “avrebbe senso parlare di ‘multitasking’ se le nostre facoltà cognitive lo permettessero. In realtà il cervello umano è fatto per dare attenzione a una cosa per volta. […] A ogni passaggio da un focus all’altro il nostro cervello subisce una dispersione di energia che si concretizza in affaticamento e conseguente perdita in profondità , sia nelle attività di analisi sia in quelle creative” (p. 90). In ragione di ciò, qual è il suo giudizio sull’uso dei libri digitali e del tablet in classe? In Italia i decisori nel campo delle politiche formative hanno riflettuto abbastanza su questi temi? A livello internazionale, quali sistemi scolastici sono stati più cauti? Come mette in luce una recente ricerca dell’OECD, l’impressione è che l’Italia si sia finora concentrata sugli obiettivi strumentali (per es. aumentare il numero di classi con una certa tecnologia o il numero di aule connesse) visti come un fine in sé. Invece, gli obiettivi pedagogici di questa trasformazione sono sempre stati espressi in modo vago. Perché stiamo impegnandoci in questa trasformazione? Cosa vogliamo ottenere? Come misuriamo i risultati? Questa vaghezza ha impedito finora anche di misurare o almeno valutare solidamente che cosa hanno prodotto queste politiche. Il tablet viene spesso introdotto nelle scuole secondo questo stesso approccio, come se la sua presenza fosse benefica di per sé e senza avere chiaro cosa si vuole fare di questo strumento. Per quanto ne so, e per quanto ho visto anche di persona nelle scuole che sto visitando per una ricerca estensiva che sto portando avanti per il Ministero dello Sviluppo Economico e il MIUR, uno strumento come il tablet richiede un ripensamento abbastanza radicale della dinamica d’aula. Solo con questo ripensamento e con un progetto ben pensato uno strumento così potente, ma anche così potenzialmente dispersivo, può essere benefico. Cosa penso quindi del tablet in classe? Innanzitutto che la scuola non debba rimanere estranea a queste trasformazioni ma anzi che essa abbia un ruolo importante per “educare” ad un uso critico dei media. Questo significa che gli strumenti come il tablet dovranno assolutamente entrare nella scuola, se non altro per offrire esperienze di un suo utilizzo critico a studenti che hanno poca guida adulta nel loro uso delle tecnologie fuori da scuola. Tuttavia non penso che oggi sia saggio fare del tablet lo strumento universale di lavoro nelle classi, soprattutto nel caso in cui venga usato al posto dei libri per la lettura attenta e lo studio. Abbiamo ancora troppo da capire sugli effetti cognitivi e sociali di questi strumenti per tirare delle conclusioni definitive. Ci si deve basare su ciò che, a detta degli insegnanti, questi strumenti hanno mostrato sul campo: sicuramente essi aumentano (almeno nel breve termine) il coinvolgimento degli alunni meno motivati ma non sembrano aumentare le performance di apprendimento di coloro che già lo erano (vedi anche i risultati del primo studio sperimentale italiano sul progetto Cl@ssii 2.0, Checchi et al, 2013). Inoltre, gli insegnanti segnalano che i rischi per la concentrazione sono i più rilevabili tra gli effetti collaterali. Se fossi un insegnante oggi e avessi a disposizione dei tablet nella mia classe, credo che li utilizzerei per alcune ore a settimana, organizzando con essi alcune attività specifiche (ricerca critica di informazioni, test interattivi, simulazioni e visualizzazioni di dati scientifici). L’esperienza di decidere di spegnere il tablet e riporlo per guardarsi negli occhi, discutere, leggere credo sarebbe benefica per gli studenti di questa immaginaria classe. Sicuramente non userei il tablet come strumento principale per leggere e studiare. Quanto ai sistemi scolastici esteri, non mi vengono in mente paesi esplicitamente cauti quanto paesi che hanno percorso più velocemente la strada delle tecnologie e nei quali sono emersi successivamente dei dibattiti sugli effetti collaterali di questi strumenti, per esempio la Gran Bretagna, i paesi del Nord Europa e le scuole private degli Stati Uniti. In nessuno di questi paesi sono emersi dati chiari sui benefici dei tablet per l’apprendimento, mentre ferve il dibattito su quale sia il loro uso migliore nelle classi. L’introduzione di dispositivi come il kindle (non collegati alla Rete) in aula sarebbe stato secondo lei più prudente? I lettori di e-book non retroilluminati e monofunzione sono strumenti sicuramente più adatti di un tablet per la lettura impegnativa. Proprio recensendo il libro di Casati ho scritto che l’autore parla del tablet, ma non approfondisce il tema degli strumenti dedicati specificamente alla lettura (ad esempio gli e-book reader basati sulla tecnologia dell’inchiostro elettronico), se non per dire giustamente che hanno “perso” nel mercato dei dispositivi elettronici. Tuttavia, non penso che sostituire i tablet con i reader risolva il problema. Il tablet solitamente non viene introdotto nelle scuole specificamente come supporto per la lettura ma per tutte le sue molteplici funzioni, che il reader non ha. Inoltre il tablet è lo strumento in questo momento in maggiore crescita e diffusione ed è’ importante socializzare i ragazzi ad un uso significativo dei dispositivi digitali che usano anche fuori da scuola. Meglio quindi, in questo momento, mantenere il tablet o il notebook (laddove c’è) per specifiche attività e, ancora, la carta per leggere e studiare (a maggior ragione considerando gli effetti collaterali sulla vista che gli schermi retroilluminati comportano). Scrive anche che “le nuove tecnologie spingono gli utenti, specialmente i giovani che usano questi strumenti negli anni della loro formazione, a processare le informazioni in modo frammentato e ipertestuale piuttosto che nella forma lineare e consequenziale propria del sapere organizzato tradizionale” (p. 86). Che cosa uno studente di 14 anni non sa più fare rispetto a uno di venti anni fa? Si tratta di una perdita recuperabile o no? Uso spesso una similitudine quando parlo del processamento delle informazioni nell’era digitale. Ci sono quelli che al mare fanno snorkeling, cioè stanno con maschera e boccaglio sulla superficie dell’acqua. Vedono molte cose dall’alto ma senza poterle toccare né esaminare da vicino. C’è poi chi invece ogni tanto si immerge, nuota con fatica in profondità, esamina da vicino un particolare e magari porta qualcosa in superficie. Ebbene, la tendenza che viene naturale con i media digitali è quella di restare sempre in una condizione di snorkeling, esaminare velocemente tante cose senza però avere forza e volontà per sceglierne una e andare in profondità. I ragazzi di oggi sono abituati a questo approccio alle informazioni. Intendiamoci, lo snorkeling digitale, che fuor di metafora è la navigazione, è molto importante per reperire le informazioni e può anche essere basata su tecniche sofisticate. Però, se non si offrono ai ragazzi esperienze di immersione a scuola, e del piacere più profondo che questo tipo di analisi dettagliata offre, è difficile che lo sviluppino poi fuori da essa. Siccome penso che le facoltà più nobili dell’intelligenza umana abbiano bisogno di concentrazione e immersione per attuare le loro potenzialità, penso che sia opportuno educare a questo tipo di “immersione”. L’uomo di cultura di domani deve saper navigare bene e in modo efficiente, ma deve anche saper fermarsi a leggere e commentare dettagliatamente un testo. Mi pare che lei infine contesti l’idea per cui le pratiche cognitive dei nativi digitali debbano essere adottate come modello per il futuro. Su quali basi poggia questa sua convinzione? Quale dovrebbe essere o continuare a essere il modello ? Contesto l’idea che le pratiche dal basso dei giovani, che utilizzano i nuovi media senza una guida adulta, debbano essere prese a modello per il loro uso nella formazione istituzionale. Pensare che delle pratiche nate in contesti di svago o di comunicazione disimpegnata tra pari possano sostituire d’improvviso le modalità didattiche tradizionali mi pare ingenuo. Non bisogna inoltre dimenticare che queste pratiche - prendiamo per esempio l’uso di Facebook per lo scambio di informazioni - si basano su tecnologie commerciali, costruite a fini di lucro e non a fini educativi. Pc, tablet, smartphone, ecc. non sono stati progettati specificamente per apprendere, ma per piacere. I media digitali danno perciò l’impressione che tutto possa essere fruito e costruito in modo molto più accattivante. Io però non credo sia tramontata l’idea per cui la fatica è necessaria per costruire nuova conoscenza e per fruire in modo significativo della cultura. La fatica dell’apprendere non si cancella, neanche nel mondo digitale. Molti istituti hanno esperienze positive con LIM, notebook o tablet in classe, ma allo stesso tempo si rendono conto che il tipo di studio a cui stanno abituando i loro studenti sta cambiando. In una scuola superiore pugliese, ad esempio, mi raccontavano che i loro studenti hanno difficoltà una volta arrivati all’Università perché si trovano a studiare volumi di una certa entità, privi di quelle caratteristiche attraenti a cui sono abituati studiando con LIM e presentazioni powerpoint. Il quesito viene spontaneo: pensiamo che abituare a tale fatica sia ormai inutile? Io credo di no. Quindi ben vengano le tecnologie ma non devono farci perdere capacità di concentrarci e faticare su un testo impegnativo. La sfida di oggi è quella di sviluppare un modello che educhi ad un uso critico delle tecnologie, e che pur abbracciando le novità non butti a mare l’attenzione all’argomentazione lineare e consequenziale e allo sviluppo della capacità di concentrarsi. Ci vuole in questo un po’ di pazienza. La storia dei media ci dice che le innovazioni necessitano di un po’ di tempo perché una società le “digerisca”. La ricerca e la scuola sono chiamate oggi ad impegnarsi per velocizzare questo processo di presa di consapevolezza. Però sul lungo periodo sarei ottimista: le opportunità che derivano da una innovazione importante, com’ è oggi la Rete, sono sempre state enormi per l’uomo quando questi ha compreso il modo giusto di sfruttarla.

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